L’annuncio di Donald Trump che ritirerà le forze armate americane dalla Siria non è stato digerito dal generale Jim Mattis, segretario della Difesa. Mattis aveva sconsigliato il ritiro e si è dimesso spiegando le sue ragioni in una lettera rilasciata poco dopo l’annuncio di Trump. All’inizio il 45esimo presidente ha lodato Mattis in un tweet, citando il contributo dato dal generale alla sicurezza americana. Ma pochi giorni più tardi, dopo aver sentito da Fox News il contenuto della lettera di dimissioni (che lui evidentemente non aveva letto), ha criticato Mattis in un altro tweet, ricostruendo la storia del generale, ricordando che Barack Obama lo aveva licenziato e che lui gli aveva dato una seconda chance. Per di più, in una recente intervista, aveva definito Mattis “un democratico”, termine poco lusinghiero nel suo vocabolario.
Mattis nella sua lettera di dimissioni aveva spiegato, molto diplomaticamente, che “il presidente ha bisogno di un segretario della Difesa la cui visione in politica estera combaci con la sua”. Il generale ha anche citato l’importanza di mantenere rapporti cordiali con i Paesi alleati, i cui contributi sono indispensabili per fare fronte alla politica espansiva della Russia, della Cina e di altri Paesi gestiti da regimi autoritari.
Le stoccate indirette ma cortesi di Mattis sono chiarissime. Il generale criticava i comportamenti poco diplomatici di Trump con gli alleati e indirettamente quelli molto “amichevoli” con i nemici degli Usa. Trump non ha gradito e, invece di accettare le dimissioni con decorrenza dalla fine di febbraio, indicata da Mattis per dargli il tempo di rimpiazzarlo, ne ha anticipato al primo gennaio la chiusura del rapporto. Per sostituirlo, ha nominato temporaneamente Patrick Shanahan, il vice di Mattis, anche se ha scarsa esperienza in campo militare e diplomatico.
Poco importa. Assumere stretti collaboratori temporaneamente sta divenendo tipico per il 45esimo presidente, anche perché non ci sono molti professionisti in giro che vogliono lavorare per un capo che governa d’istinto, ignorando i suggerimenti dei suoi consiglieri. Anzi, spesso vengono smentiti da un giorno all’altro, come è successo recentemente al suo consigliere di sicurezza nazionale, il falco John Bolton, il quale tre mesi fa aveva annunciato che per sconfiggere l’Isis e contenere l’Iran bisognava ampliare gli obiettivi militari americani in Siria.
Trump lavora bene nell’incertezza e preferisce collaboratori la cui qualità principale consista nella sudditanza ai suoi principi, che sono difficili da capire. Membri temporanei del gabinetto di governo sono dunque per lui preferibili. Al momento, oltre alla Difesa, Trump lavora con un capo di gabinetto temporaneo, Mick Mulvaney, che ha accettato l’incarico di malavoglia e Matt Whitaker, segretario di Giustizia temporaneo. Whitaker è considerato impreparato ma si crede che Trump lo abbia nominato come possibile argine alle indagini di Robert Mueller, il procuratore speciale che indaga sulle presunte interferenze russe nelle elezioni presidenziali del 2016.
Il turnover dei collaboratori si addice allo stile governativo spesso improvvisato di Trump. Infatti, in questo è un campione. Uno studio della Brookings Institution – che analizza i cambi di personale di parecchi presidenti – ci informa che fra i collaboratori principali, “the A Team” (la squadra titolare), Trump ne ha cambiati 42 su 65, ossia il 65 percento (Obama il 24 per cento, George W. Bush il 33%). Diciassette di questi collaboratori sono stati promossi, 14 sono stati costretti a dimettersi, 11 si sono dimessi di propria volontà.
Il clima creato da Trump nella sua amministrazione non incoraggia gli specialisti ad accettare i posti che si liberano. In parte ciò è dovuto alla personalità del capo, che governa in modo poco strutturato, e in parte alle indagini sul Russiagate. Lavorare accanto a Trump spesso richiede la necessità di assumersi un avvocato, considerando il rischio che la vicinanza a lui li renderà testimoni di irregolarità o di azioni potenzialmente illegali, attirando l’attenzione di Mueller.
La partenza di Mattis si aggiunge a quella di molti altri “adulti”, individui di spessore, rappresentanti dell’establishment, con esperienza nelle strutture e metodologie del governo a livello nazionale ma anche internazionale. Si ricordano in proposito altre figure di notevole spessore (Jeff Sessions, giustizia), (Rex Tillerson, affari esteri), (H.R. McMaster, sicurezza nazionale), che per una ragione o per un’altra hanno già lasciato la barca di Trump. Il 45esimo presidente sembra soddisfatto, preoccupandosi più della fedeltà che delle competenze dei suoi collaboratori.
Da candidato, Trump aveva detto che in politica estera lui consulta innanzitutto se stesso perché possiede “un buon cervello”. Il successo di Trump nella conquista della Casa Bianca quando nessuno se lo aspettava lo potrebbe rassicurare sulla sua intuizione e sulla sua lungimiranza. In realtà una persona veramente intelligente ammetterebbe di non sapere tutto e considererebbe seriamente i pareri dei suoi consiglieri.
Trump agisce invece sempre più da leader autoritario con una sommaria conoscenza del sistema basato sui suoi istinti. Avendo notato il calo della Borsa (9 per cento nel 2018) ha indagato per stabilire se può licenziare Jay Powell, chairman della Federal Reserve, considerandolo responsabile dell’aumento dei tassi di interesse. Non lo può fare. I contrappesi ai poteri del presidente continuano a reggere, ma lui non riesce a comprenderlo. Il fatto che preferisca circondarsi di adulatori invece che di specialisti disposti ad offrirgli i loro consigli potrà soddisfare il suo ego ma non giova né al Paese né al resto del mondo.
*Domenico Maceri, PhD, è professore emerito all’Allan Hancock College, Santa Maria, California (dmaceri@gmail.com).
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