di DOMENICO MACERI* – “Non posso assicurarla che se si continua oggi non riceverà una pena che escluda il carcere”. Con queste parole il giudice federale Emmet Sullivan ha cercato di incoraggiare Mike Flynn, ex consigliere della sicurezza nazionale del Presidente Donald Trump, a rinviare la sentenza che stava per emettere. Il primo dicembre del 2017 Flynn si era dichiarato colpevole di avere mentito alla Fbi per non avere rivelato i suoi contatti con l’ambasciatore russo. Inoltre Flynn non aveva denunciato alle autorità federali il suo lavoro di lobbista come agente straniero che svolse senza essere registrato.
Gli avvocati di Flynn avevano asserito che il loro assistito non meritava il carcere per la sua preziosa collaborazione alle indagini condotte dal procuratore speciale Robert Mueller sulle interferenze russe nell’elezione americana del 2016. I rappresentanti di Mueller avevano anche loro riconosciuto la collaborazione di Flynn ed erano d’accordo.
Il giudice Sullivan però ha voluto dimostrare il suo “disgusto” per la condotta di Flynn dicendo che l’ex consigliere della sicurezza nazionale, un “alto funzionario del governo”, ha fatto dichiarazioni false alla Fbi proprio nelle “stanze” della Casa Bianca. Il giudice ha continuato – additando la bandiera americana dell’aula – accusando Flynn di avere “svenduto la sua patria”. Sullivan ha continuato con la sua linea dura chiedendo ai rappresentanti di Mueller se le azioni di Flynn meritassero di essere considerate “tradimento”. La domanda ha colto di sorpresa Brandon Van Grack, il rappresentante legale del procuratore speciale, il quale però ha dichiarato che al momento non rientrava nelle loro valutazioni.
Alla fine, Sullivan, gli avvocati di Flynn e quelli di Mueller si sono accordati per rimandare la sentenza di tre mesi, dando l’opportunità all’ex consigliere della sicurezza nazionale di effettuare una collaborazione più completa. Tutti in effetti hanno cercato di evitare il carcere a Flynn. Persino il presidente Donald Trump il giorno prima dell’udienza di Sullivan aveva inviato un tweet augurando buona fortuna a Flynn.
Trump aveva anche usato parole dolci per Paul Manafort, il suo ex manager della campagna elettorale da marzo ad agosto del 2016. Manafort era stato condannato per frode fiscale e attendeva un secondo processo. Nel mese di settembre del 2018 ha poi deciso di cooperare con gli inquirenti dell’indagine sul Russiagate per cercare di ridurre la sua condanna e ottenere clemenza per altri grattacapi legali. Ciononostante nel mese di novembre gli inquirenti dell’indagine del Russiagate hanno accusato Manafort di avere violato l’accordo. Sembrerebbe che mentre cooperava con l’indagine di Mueller, Manafort passava informazioni confidenziali ai legali di Trump. Si crede che con il suo doppio gioco Manafort avesse deciso di continuare ad assistere Trump sperando di ottenere una grazia presidenziale nel prossimo futuro. Trump, infatti, lo aveva lodato attraverso parecchi tweet mentre allo stesso tempo attaccava le indagini dei legali di Mueller.
Un trattamento diverso è stato riservato da Trump al suo ex avvocato Michael Cohen, il cui ufficio era stato perquisito dalle forze dell’ordine, che avevano sequestrato numerosi documenti nel mese di aprile del 2018. Trump ha inizialmente reagito duramente verso Mueller dicendo che l’azione andava considerata come “un attacco alla nazione, una caccia alle streghe”, citando anche la fine del privilegio fra cliente e avvocato. Nei prossimi mesi però Cohen ha deciso di abbandonare Trump e collaborare con i legali del Secondo Distretto di New York, incaricati delle indagini nel suo caso. La musica di Trump è dunque cambiata e il 45esimo presidente ha accusato il suo ex legale di “tradimento”.
Cohen è stato condannato a tre anni di carcere, pena alleggerita dalla sua collaborazione con gli inquirenti del Russiagate. Il suo processo però era a carico del Secondo Distretto di New York con i quali Cohen ha anche collaborato ma non totalmente, forse per proteggere qualcuno a lui caro. Per quanto riguarda i suoi legami con Trump, però, Cohen ha confessato che lui aveva pagato due donne con cui Trump aveva avuto rapporti intimi per mantenere il loro silenzio due settimane prima dell’elezione.
L’attuale inquilino della Casa Bianca ha accusato il suo ex legale di essere bugiardo e quindi non credibile. Anche uno dei suoi attuali legali, Rudy Giuliani, ha accusato Cohen di mentire per avere confessato che lui aveva fatto i pagamenti alle due donne con la cooperazione, la conoscenza e l’approvazione di Trump. Cohen sarebbe in possesso di registrazioni per dimostrare le sue asserzioni. Inoltre, in un’intervista alla Abc il giorno dopo la sua condanna, Cohen ha chiarito che le sue testimonianze sono corroborate da informazioni possedute dagli inquirenti di Mueller.
Trump ha sempre asserito, fino alla nausea, che le indagini sul Russiagate sono una caccia alle streghe e che lui non è colpevole di collusione con i russi. Il carcere del suo ex avvocato e la vicinanza delle condanne di Flynn e Manafort ci suggeriscono il contrario. Bisogna aggiungere il totale dei 34 individui incriminati, 26 dei quali sono cittadini russi. Gli altri americani indagati da Mueller, alcuni dei quali stretti collaboratori ed altri molto vicini a Trump, stanno causando serie preoccupazioni all’attuale inquilino della Casa Bianca.
La conquista della maggioranza del Partito Democratico alla Camera nelle elezioni del mese scorso appaiono come altre nubi incombenti su Trump. La possibilità di impeachment rimane sempre remota ma molto meno. Tutto dipende dalla conclusione delle indagini di Mueller che è prevista per il mese di febbraio 2019.
*Domenico Maceri, PhD, è professore emerito all’Allan Hancock College, Santa Maria, California (dmaceri@gmail.com).
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