di DOMENICO MACERI* – “Beh, e le 800 mila persone? Le importa? Ha un cuore? Sembra proprio di no”. Con queste parole LaVerne Byrd, una rappresentante sindacale dei dipendenti federali, si rivolgeva direttamente a Donald Trump, considerandolo responsabile dello “shutdown”, la chiusura dei servizi governativi non essenziali. Byrd si preoccupava ovviamente della situazione finanziaria dei suoi soci.
Poche settimane fa in una riunione alla Casa Bianca con leader dei democratici, il 45esimo presidente aveva detto davanti alle telecamere che lui si prende la responsabilità per lo “shutdown”. Trump voleva lo stanziamento di 5,7 miliardi di dollari per la costruzione di un muro al confine col Messico, ma né Nancy Pelosi, neo leader della Camera, né Chuck Schumer, leader democratico al Senato, hanno acconsentito.
Lo shutdown continua dal 22 dicembre e fino al momento in cui scriviamo queste righe è al secondo posto per durata nella storia degli shutdown. La costruzione del muro è divenuta un’ossessione per Trump. Il quale si è reso conto che non ha mantenuto la promessa fatta in campagna elettorale. Ciò non sarebbe tanto importante, eccetto per il fatto che alcuni conduttori radiofonici molto popolari come Rush Limbaugh, Ann Coulter, e altri alla Fox News, lo hanno ricordato ai loro ascoltatori. Trump sa benissimo che per mantenere la fedeltà della sua base ha bisogno di questi membri della comunicazione e quindi si è scavato una fossa dalla quale gli riesce difficile di uscire.
Dopo due anni di presidenza e di controllo repubblicano della Camera e del Senato, Trump non era riuscito a mantenere la sua promessa di costruire il suo famigerato muro. Adesso, con la Camera nelle mani dei democratici, la sua impresa è diventata molto più ardua. Poco importa. Trump crede che insistendo nella narrativa politica sull’immigrazione gli sarà utile poiché considera la questione come una sua carta vincente.
Il problema è che l’attuale inquilino della Casa Bianca non è nemmeno riuscito a creare entusiasmo nei membri del suo partito. Ecco perché solo poche settimane fa il Senato aveva approvato il bilancio che non includeva lo stanziamento di fondi per il muro. Una volta emerse le sue obiezioni, la Camera, capitanata dall’uscente speaker Paul Ryan, ha approvato il disegno di legge che includeva i fondi richiesti da Trump. Mitch McConnell, il presidente del Senato, però, non l’ha sottoposto al voto perché occorrevano 60 voti e i repubblicani in Senato dispongono solo di 53 voti.
Non appena Nancy Pelosi ha rimpiazzato Ryan, i democratici hanno deciso di opporsi e hanno mandato al Senato lo stesso disegno di legge che la Camera Alta aveva approvato poche settimane prima. McConnell non lo ha sottoposto al voto prevenendo la sconfitta.
Nei suoi incontri per cercare di convincere i leader democratici della necessità del muro, Trump ha insistito che il confine rappresenta una crisi per gli Stati Uniti. Per aumentare l’allarme Trump ha fatto un discorso alla Nazione che le reti televisive hanno trasmesso nonostante si temessero contenuti da campagna politica. In effetti, il 45esimo presidente nei suoi 9 minuti ha riscaldato la minestra anti-immigranti della campagna elettorale e del suo discorso di insediamento. Per Trump si tratta di un’invasione di criminali e terroristi che entrano nel Paese dal confine col Messico.
I fatti però non hanno convinto nessuno. Persino Chris Wallace, conduttore della Fox News, rete conservatrice, ha smentito le asserzioni di Sarah Huckabee Sanders, portavoce di Trump, sul numero di individui arrestati perché sospettati di terrorismo. Si tratta di 4000 secondo la Sanders, ma Wallace ha giustamente corretto che la stragrande maggioranza di questi individui non entrano dal confine col Messico ma in aereo. La Cnn ha confermato questi dati citati da Wallace in un recente programma, secondo il quale nel 2018 dodici potenziali terroristi sono stati bloccati al confine col Messico.
Con la sua invenzione della crisi al confine col Messico Trump ha però creato una vera crisi per l’America e specialmente per gli 800 mila dipendenti federali. La mancanza di fondi in seguito shutdown riguarda un quarto delle attività federali. Quattrocento mila di questi individui sono indispensabili perché lavorano nel campo della sicurezza e nei trasporti e sono costretti a prestare servizio senza essere pagati, sperando di ricevere i loro assegni in futuro. Altri 380mila sono stati congedati senza stipendi e non sanno quando potranno ritornare a lavorare. Nel frattempo tutti questi 800mila dipendenti non sanno come arrivare alla fine del mese.
Non sono però i soli a soffrire le conseguenze dello shutdown. Si calcola che 38 milioni di poveri, che ricevono sussidi dal governo per comprare cibo, non li potrebbero ricevere perché il Dipartimento di Agricoltura, che li gestisce, è chiuso. Il Dipartimento delle Case e Sviluppo Urbano (HUD) ha inviato lettere a 1500 proprietari di case e appartamenti chiedendo loro di non sfrattare individui che ricevono sussidi governativi.
Rispondendo a una domanda di un giornalista sulla tragica situazione causata dallo shutdown, Trump ha detto che tutti dovranno arrangriarsi, come hanno fatto in passato. In un altro caso, il 45esimo presidente ha dichiarato che la stragrande maggioranza dei dipendenti federali risiedono nella zona di Washington D.C. e sono democratici, lasciando iuntendere che non gliene importa niente perché non lo hanno votato. Ma sbaglia, perché l’80 percento dei dipendenti federali sono sparsi in tutto il Paese, inclusi gli stati che lo hanno aiutato a conquistare la Casa Bianca.
Nel suo discorso televisivo Trump ha ricordato che la crisi al confine ha anche una dimensione umana. Ha ragione. La sua politica la ha aggravata con il trattamento degli immigrati, la separazione dei bambini dai genitori, e l’invio di truppe americane per bloccare questa gente che sfugge dalla disperazione dell’America Centrale. Il 45esimo presidente continua disperatamente i suoi tentativi per mantenere l’impossibile promessa elettorale della costruzione di un muro al confine col Messico. A farne le spese non sono solo gli immigrati, ma anche gli americani.
*Domenico Maceri, PhD, è professore emerito all’Allan Hancock College, Santa Maria, California (dmaceri@gmail.com).
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