di NUCCIO FAVA – Sulla tragedia della Libia viviamo un paradosso doloroso e grottesco. Sono stati necessari l’assassinio di due connazionali e la successiva liberazione di due altri compagni, sempre italiani divenuti ostaggio e preda di contrapposti gruppi ribelli e mercenari che si contendevano i prigionieri, per accendere in modo ancora più rumoroso e preoccupante l’attenzione sulla gravissima crisi della Libia. Crisi già evidente alla fine della feroce uccisione di Gheddafi, che in molti ritenevano la fine di un incubo e l’inizio di una nuova fase e che si è invece trasformata in una lotta fratricida con decine di tribù in permanenza l’una contro l’altra armate. Alla ricerca di affermazione, di conquista di potere e di risorse secondo una logica la più spregiudicata e mercenaria.
In questo quadro dilacerato e caotico ha naturalmente trovato spazio favorevole l’estremismo islamico e la sua espressione politica più radicale e preoccupante rappresentata dall’Isis. Sono in gioco nostri vitali interessi e la sicurezza del Mediterraneo, solcato da anni da precarie imbarcazioni corsare cariche di disperati che cercano salvezza e ragioni di sopravvivenza. La terribile vicenda dei quattro tecnici italiani, ostaggi per otto mesi di milizie mercenarie e anche contesi da gruppi vicini all’Isis, ha provocato inevitabilmente un sussulto politico e reazioni diffuse di opinione pubblica. Anche a causa della confusione per le molteplici ipotesi formulate circa le reali condizioni in cui sono avvenuti prima l’assassinio dei due ostaggi e, poche ore dopo, la liberazione dei loro due compagni di sventura.
Si tratta di materia delicata in cui entrano in gioco non blitz militari ma la discrezione e la riservatezza, inevitabili nelle operazioni di intelligence che non escludono anche offerte di danaro. Singolare il prolungato silenzio del governo, che nelle stesse ore della tragedia interveniva con prontezza a solidarizzare col direttore “stacanovista” della reggia di Caserta. Sarebbe stato forse più importante esprimere qualche orientamento su quanto avveniva a poche centinaia di chilometri dalla nostra costa e a pochi km dal più importante stabilimento Eni in Libia.
Ci siamo pavoneggiati per settimane sulla necessità di assegnare all’Italia la guida della missione, con la condivisione di Obama che l’ha anche sollecitata con il suo ambasciatore a Roma. Naturale l’accordo per la primogenitura italiana anche da parte di Francia e Gran Bretagna, già attive sullo scacchiere libico, mentre il nostro governo era prevalentemente assorbito a spiegare che le missioni degli aerei e dei droni Usa dalla base di Sigonella e da Trapani venivano autorizzate uno per volta.
Ora apprendiamo che il presidente del Consiglio è preoccupato (e come non esserlo?!), chiede cautela e pazienza, tutte virtù meritorie ed opportunamente evocate. Forse però è urgente far sentire in Parlamento e soprattutto all’opinione pubblica che a palazzo Chigi si dispone di una strategia, un disegno di coordinamento efficace con gli altri paesi già impegnati in vario modo nell’operazione Libia e contro l’Isis, che coinvolge anche altri Stati di quell’area a cominciare dall’Egitto. Non si può dare l’impressione alla comunità internazionale e ai propri cittadini preoccupati che la guida di una coalizione per affrontare una situazione così difficile e strategica come quella libica possa essere scambiata per una coccarda da appendere alla giacca. Si tratterà in ogni caso di una prova severa di responsabilità, di capacità e competenza .
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