di GIUSEPPE VARNIER* – L’«inventore» della filosofia della storia, Hegel, faceva iniziare la sua narrazione fondativa dalla Cina e dall’India, due civiltà «letterate». E questo continuò a lungo. Semplicemente, ancora non si aveva, in quell’epoca, consapevolezza alcuna delle abissali profondità cronologiche che precedono l’esistenza della condizione umana moderna, e di fronte a cui meno di diecimila lunghi anni di storia propriamente detta impallidiscono: milioni di anni nel processo di ominazione, circa duecentomila anni dalla dispersione dall’Africa di homo sapiens, decine e decine di migliaia di anni di preistoria e poi protostoria, in cui si preparavano le prime e primitive testimonianze strumentali e simboliche che illustrano l’ascesa dei nostri antenati. Si pensi che tra la probabile acquisizione di un linguaggio di tipo moderno e la storia propriamente detta passano probabilmente più di centomila anni almeno. Questi abissi di tempo, difficili da immaginare, pure non furono certamente vuoti: tutt’altro. In essi almeno si prepararono e svilupparono le condizioni materiali, e la cultura materiale, che avrebbero permesso, alla fine di una complessa vicenda non teleologica, lo stabilirsi delle prime civiltà, ed infine l’avvento della scrittura. Il possesso dei mezzi materiali, progressivo e dalle lontanissime basi di partenza, va pensato in questo quadro aperto alla natura dell’uomo e alla sua complessa materialità.
Cercare di capire le interazioni umane col mondo che presiedettero a questo processo è quindi tuttora oggetto di tentativi tanto doverosi quanto sempre di nuovo all’inizio, e sempre confrontati con sfide assai complesse. Nel suo ultimo libro, che propone, ambiziosamente ma non a torto, tutto un nuovo paradigma, Carlo Ruta rintraccia efficacemente soprattutto quei processi di trasformazione, di civilizzazione, di apertura di rotte (soprattutto di mare, ma non solo), e di innovazione tecnologica, dagli episodi cruciali sparsi nei secoli e nei millenni, che hanno condotto gli uomini direttamente nostri antenati dalla più antica preistoria, attraverso la cosiddetta protostoria, sino all’alba della storia propriamente detta – con la finale invenzione della parola scritta al servizio della comprensione di tutte le altre invenzioni precedenti, e di quelle future. Un elemento concettualmente assai interessante della trattazione è nel fatto che l’Autore, con una sorta di «logica combinatoria», parte dagli elementi primi a disposizione di ogni civiltà (il legno, il fuoco, i vari metalli, «l’elemento acqueo», la pietra, ecc.), per vedere come essi entrino in relazioni possibili, e poi variamente realizzate, e come alcune di queste traccino percorsi per così dire a priori, e ricchi di significato e concretizzazione.
Ecco dove, secondo me, l’effettiva novità del paradigma può ravvisarsi. Vi è, in effetti, molto di proficuamente hegeliano, e forse di bachelardiano – e in breve di positivamente filosofico – in tali procedure «combinatorie», che illuminano bene ciò che vi è di fisicamente, organicamente necessario, e ciò che vi è di contingente, ed anche storico, nelle interazioni tra l’uomo e i materiali che popolano il mondo umano, e che costituiscono per così dire la dotazione preliminare, ed universale, di ogni possibile processo di civilizzazione, per quanto elementare (ed anche la geografia ha qui enorme importanza) – sino ad arrivare a vere e proprie tecnologie relativamente avanzate, su cui pure l’Autore si sofferma. Ne scaturisce un panorama variegato e complesso, che, partendo dalle generalità, ed avendole, come si è detto, sempre ben presenti, infine si concentra su una serie di concreti problemi ed eventi: la transizione tra Paleolitico e Neolitico, col ruolo complesso ed ancora imponente del legno; la persistente importanza della pietra per la cerealicoltura; l’affinamento progressivo sin dalla Grecità, ed anche prima, degli strumenti in metallo lavorato; la «sintesi» per così dire «ingegneristica» romana, che elide la teoresi ma realizza una poderosa cultura dei macchinari; i trasporti di terra in connessione con la tecnologia bellica.
Ma lo sguardo dell’analisi è a tutto campo. Ruta analizza anche gli analoghi sviluppi della Cina Han, dove l’altissimo sviluppo della siderurgia condusse ad un «macchinismo» per nulla inferiore a quelli alessandrino e romano. L’ homo faber è tutti gli uomini, e le civiltà umane offrono risposte diverse o simili, a problemi o eterni o contingenti, secondo le loro dotazioni universali di partenza, ma anche secondo le contingenze geografiche e materiali entro cui si trovano ad operare. Il sismografo inventato per la prima volta in Cina costituisce un bell’esempio di questa diversificazione a partire anche da condizioni in qualche modo a priori. La diversificazione in ultima analisi conduce sempre a postulare e descrivere diversi sistemi influenti di credenze e differenti schemi concettuali, sorti dalle diverse sfide che la natura pose e pone, ad es., alla Cina e ai popoli mediterranei – rispettivamente più legati, almeno all’inizio, alla terra e al mare. Le esigenze e le tappe principali di progresso, pur diversamente scalate ed accentuate, restano però comuni, in quanto, alla base, panantropiche; si legga per esempio: “[…] qualcosa di analogo accadeva nell’Eurasia mediterranea, con cronologie e dialettiche tra mare e terra differenti e perfino rovesciate ma con il persistere dei canovacci relazionali e con esiti ancora originali e paradigmatici. Anche in Occidente il legno costituiva la materia tecnologica più utilizzabile, in contesti operativi e di vita che forse con un qualche anticipo consentivano ai gruppi umani di mobilitarsi, con imbarcazioni e tecniche in sviluppo, lungo le rotte marine” (pp. 57-58). Il legno, alleato coi metalli, crea ovunque una rivoluzione ancor più profonda di quella del Neolitico.
Nei capitoli successivi si tratta: dell’inizio del vero «governo del mare» – della distesa ampia e salina – attraverso scoperte e premesse inizialmente acquisite tra il Calcolitico e l’età del Bronzo; del successivo trionfo della metallurgia (prima rame indurito, poi bronzo), necessitata a sua volta anche dai progressi dell’industria lignea e litica, che premevano ancora per progressi ulteriori; la susseguente crescita, anche per gli inevitabili e così dedotti scompensi socio-economici susseguenti, degli strumenti tecnologici bellici, fino al Ferro; la sopravvivenza della pietra, ora squadrata e ingegnerizzata, e dell’argilla; verso l’epoca del Rame, il consolidarsi della scoperta della scrittura, che traghetta fuori della preistoria ed è spia di un maturato bisogno sociale – e mostra inoltre, nella sua materialità quasi «liquida», impreviste consonanze strutturali e concettuali, più che coi metalli, con lo stesso legno ingegnerizzato.
Questo nuovo paradigma, applicato a tutta un’ampia gamma di casi epocali, vede dunque lo snodarsi delle vicende umane protostoriche e preistoriche, soprattutto, alla luce di un quasi necessitato giuoco dialettico tra geografia e condizioni primarie, istinti ed impulsi umani fondamentali, e soprattutto materiali e mezzi via via a disposizione – come si è detto all’inizio – che così vengono come «ritratti» con inusuale vivezza. Questo aspetto mi pare fondamentale e particolarmente prezioso per capire chi è homo faber, cioè chi siamo noi, in fondo, ancora oggi. L’analisi, tutta interna alle condizioni materiali, è però capace di notevoli aperture a dimensioni più «mentali», come si è indicato (vedi per es, pp. 89 e ss., e quanto si è notato sulla scrittura). La domanda è sempre, per ogni tipologia materiale-strutturale: «Quali modelli e quali risorse razionali si liberavano attraverso quei processi costruttivi e quelle modalità di lavoro?» (p. 97). Di qui, oltre che inferenze alle sovrastrutture di pensiero (ad es. l’arte religiosa e funeraria) si rilevano anche «sincronismi», così inevitabili, tra civiltà diverse, diversamente situate nello spazio e sfasate nel tempo.
Chi scrive non è uno storico, tantomeno uno storico della civilizzazione materiale. Può giudicare solo dello stile di analisi in astratto, e della prospettiva epistemologica. Entrambe appaiono nuove ed avanzate, con risvolti filosofici che sono, come si è detto, ampi ed estremamente suggestivi. L’acqua, la pietra, il legno, il metallo, la terra hanno plasmato il nostro mondo attraverso di noi. È una vicenda in apparenza decentrata rispetto al soggetto umano, ma ricca di implicazioni per esso anche ai più alti livelli di attività intellettuale, che Carlo Ruta ha bene cominciato a raccontare.
*Giuseppe Varnier, epistemologo, Università di Siena
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