di ENNIO SIMEONE – Le parole della politica stanno cambiando velocemente. In tutto il mondo. Ma fermiamoci all’Italia di oggi e a 4 vocaboli più in uso in queste settimane.
ALLEANZE. Nessuno avrebbe immaginato, e ancor meno un anno fa, che un’alleanza potesse stabilirsi tra due forze politiche tanto distanti tra loro come la Lega e il Movimento 5stelle. Eppure – per uno stato di necessità determinato da una legge elettorale sballata (voluta con miope egoismo dall’allora capo del Pd, Matteo Renzi), per la supponenza vendicativa del medesimo personaggio e dei suoi adepti, e per la voglia dei capi delle due forze politiche di assecondare le attese e la spinta dei loro elettorati – tra loro è stata stipulata un’alleanza targata come «contratto di governo».
Un patto difficile da onorare ogni giorno, e quindi da rettificare, da adeguare ai mutamenti delle condizioni economiche nazionali e internazionali e degli umori di chi ha votato, ma che la maggioranza degli italiani, secondo i sondaggi demoscopici, si augura che funzioni.
E cominciano ad augurarselo anche i più riottosi tra i cosiddetti «ortodossi» del M5s, ancor più alla luce dei risultati delle ultime (ma così sarà anche per le prossime) elezioni regionali, nelle quali oggi l’elettore, a differenza delle elezioni nazionali, solo marginalmente spende il suo voto in nome delle «ideologie» (come invece accadeva in passato) ma preferisce affidarlo alle conoscenze e alle competenze locali consolidate presenti nelle liste delle coalizioni che si presentano in alleanza con una formazione politicamente più caratterizzata.
COMPETENZE. Ecco perché opportunamente Di Maio e una larga fetta di aderenti al M5s propongono due cambiamenti alla connotazione del Movimento: 1. dire di sì nelle future elezioni comunali e (forse) regionali ad alleanze con liste civiche che presentino affinità di intenti e di correttezza con il M5s; 2. eliminare il rigido sbarramento ai propri eletti di candidarsi per una terza volta, condizione indispensabile per consolidare e valorizzare le competenze acquisite nei due mandati e presentarle a garanzia dell’elettorato. Altrimenti il M5s sarà sempre considerato – questa l’accusa che agevolmente, insistentemente e pervicacemente va ripetendo Berlusconi – un gruppo di «dilettanti allo sbaraglio», «improvvisatori», «persone senza arte né parte».
PARTITO. Aderenti ed elettori del M5s debbono convincersi che partito non è una parolaccia. Sempre di più oggi – ma già da molto tempo – termini come i partiti o la politica, vengono adoperati con sfiducia o con disprezzo, accolti nell’opinione pubblica persino con derisione o come sinonimo di sfiducia, di approssimazione, addirittura di malaffare. Purtroppo quasi tutti i partiti italiani – con una accelerazione negli anni successivi a quelli della ricostruzione postbellica – hanno fatto in modo che ciò accadesse: con i loro comportamenti, con la loro gestione del potere, con gli scandali che hanno alimentato soprattutto la cronaca nera e giudiziaria. E il M5s, con le sue giuste denunce ma anche con le sue esagerazioni, ha dato un contributo non secondario a consolidare questa immagine devastante. Fino a quando, improvvisamente e contro le sue stesse aspettative, si è trovato a diventare, grazie al consenso acquisito, e consacrato dal voto popolare, primo partito (sì: partito) del Paese.
Finché sei all’opposizione puoi comportarti da «Movimento»; ma quando passi a governare, puoi pure continuare a chiamarti «Movimento», ma devi comportarti da «Partito». Certo! Ma un partito veramente diverso da quelli che hai combattuto.
E qui viene il difficile, soprattutto se ti trovi a governare insieme con un’altra forza politica che ha mantenuto il nome diverso, «Lega», ma si comporta da partito, con le basi impiantate in un’alleanza con partiti ben definiti e caratterizzati e un leader politicamente spregiudicato.
OPPOSIZIONE. Quella del M5s è una posizione terribilmente scomoda, soprattutto perché, a fronte di una alleanza nella quale comunque la Lega è ben piazzata, c’è un’altra opposizione, miope, irrazionale, animata da livore vendicativo contro le schiere di suoi elettori che l’hanno abbandonata per riversare il loro voto verso il movimento pentastellato.
A differenza, per fortuna, dei più avveduti parlamentari di LeU, i deputati e senatori del Pd. quasi tutti (salvo qualche eccezione) di nomina renziana, danno alla parola opposizione il significato di ostruzione indiscriminata, manifestata con oscene piazzate nelle aule parlamentari, invettive, grida scomposte, opponendo non argomenti o controproposte costruttive, ma attacchi violenti ed esaltazione puntuale di tutte le critiche al governo che arrivano sia da settori legati al berlusconismo sia dai vertici dell’Unione Europea, ma indirizzate soprattutto non alla parte «destra», cioè leghista, della coalizione di governo bensì a quella incarnata dai Cinquestelle.
In ciò non si differenziano molto i tre candidati alla segreteria del Pd che si confronteranno il 3 marzo nelle «primarie», con un primato (nell’adozione di vecchi slogan) conteso tra Maurizio Martina e Roberto Giachetti, mentre Nicola Zingaretti tenta di barcamenarsi per non scontentare quella fetta di votanti che hanno nostalgia del senatore di Rignano, l’uomo che grazie a quella specie di voto di scambio di 80 euro conquistò nel 2014 l’unica vittoria della sua beve carriera di leader, alla quale segue, ora, la carriera di sterile oppositore.
Lui, di parole, è un prolifico dispensatore. Ma con un profitto sempre più scarso.
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