Intervista a CLAUDIO MICHELONI, presidente del Comitato Italiani all’Estero presso il Senato della Repubblica
Lei è uno dei pochi parlamentari del PD ad aver sottoscritto un documento per il NO al Referendum Costituzionale. Ce ne spiega i motivi?
In sintesi, i motivi principali sono tre: l’effetto concreto di questa riforma sarà la riduzione della sovranità popolare, la compressione dell’autonomia del Parlamento e una inaudita concentrazione di potere nelle mani di pochi individui; in secondo luogo, gli obiettivi dichiarati della riforma, vale a dire semplificazione dei processi decisionali e riduzione dei costi della politica, non saranno conseguiti se non in misura molto marginale, ai limiti dell’irrilevanza, e pagando un prezzo molto elevato. Inoltre, gli italiani all’estero saranno penalizzati fino a un punto tale da configurare una cittadinanza di serie B.
Per tutti questi motivi ho ritenuto non solo di sottoscrivere quel documento ma di motivare puntualmente, in tutte le occasioni possibili, le ragioni della mia contrarietà a questa riforma: ritengo che ciò corrisponda a un dovere di trasparenza che riguarda tutti, ma forse ancor più i parlamentari eletti all’estero, che sono stati scelti direttamente dai cittadini.
Perché la riforma è negativa per gli italiani all’estero e come mai, se è così, lei è l’unico ad essersi schierato per il No? C’è chi dice che si è voluto tutelare la possibilità di rielezione …
La questione è semplice: se vince il Sì il Senato non sarà abolito, la rappresentanza degli italiani all’estero invece sì. Poiché al Senato sono state assegnate dalla riforma competenze tutt’altro che marginali, quali ad esempio le modifiche costituzionali e la legislazione europea, il fatto che gli eletti all’estero rimangano alla Camera, non toglie che il voto degli italiani all’estero valga meno di quello degli italiani in Italia. Anzi, vale due volte meno se consideriamo la nuova legge elettorale: gli italiani all’estero non potranno decidere chi governa – poiché il loro voto non sarà conteggiato ai fini dell’assegnazione del premio di maggioranza e non sarà possibile prendere parte al ballottaggio – e non saranno rappresentati nella cosiddetta Camera delle Autonomie. Infine, sulle motivazioni degli altri sono certo che i diretti interessati sappiano illustrarle meglio di me; quanto ad eventuali interessi personali all’origine delle mie scelte, preferirei non adeguarmi a questo livello di discussione, ma non voglio sottrarmi alla domanda. Mettiamola così: trovo curiosa l’idea secondo la quale chi si schiera contro una proposta sostenuta dal Governo, dal vertice del PD, dalla Confindustria, da JP Morgan, dalla quasi totalità degli organi di informazione stia tutelando se stesso, ma non c’è limite alla fantasia.
Mi permetto solo di suggerire a questi grandi strateghi di riflettere su una nota frase di Jung: “Tutto ciò che ci irrita negli altri, può portarci a capire noi stessi”.
L’emigrazione italiana, contrariamente a quanto avvenuto per tre decenni (dall’80 agli anni 2000) ha ripreso a crescere in modo consistente. Da questo punto di vista, la questione della rappresentanza dei circa 5 milioni di italiani emigrati è una questione settoriale o non piuttosto una questione nazionale?
E’ certamente una questione nazionale, e per certi aspetti anche di più, se pensiamo alle ultime inquietanti notizie provenienti dalla Gran Bretagna. Siamo passati dalla retorica sulla “fuga dei cervelli” alla retorica sulle “nuove mobilità”, salvo scoprire che ogni anno diverse decine di migliaia di giovani partono per cercare lavoro, per costruirsi una vita autonoma e magari una famiglia, cose che ormai in Italia appaiono a molti come un’utopia. Fanno di tutto, dal cameriere alla guardia giurata, non solo ricerca scientifica o web design, e sono tutti dotati di cervello, come del resto i nostri genitori e i nostri nonni.
Quindi sarebbe intelligente smettere di prenderli in giro e cominciare davvero a cogliere le opportunità enormi che l’insieme di queste esperienze rappresentano per l’Italia, per la crescita della nostra economia, garantendo concretamente quei diritti di cittadinanza che rischiano di essere svuotati fino alla dissipazione di un legame, una identità che è invece fortissima.
Al di là dell’aspetto che riguarda l’emigrazione italiana, quali sono secondo lei le insufficienze e i rischi di questa riforma?
Sugli obiettivi dichiarati è difficile non essere d’accordo. Tuttavia, il contenuto reale della riforma suscita un forte timore per la qualità della democrazia italiana a venire.
Per accelerare le decisioni del Parlamento senza pregiudicarne la qualità sarebbe sufficiente riformare i regolamenti di Camera e Senato, provvedere a una riduzione del numero dei parlamentari molto più ampia di quella proposta, ma bilanciata tra le due Camere, in modo tale che il lavoro delle Commissioni possa svolgersi in maniera efficace.
Insieme ad altri senatori e deputati, generosamente qualificati come “gufi”, abbiamo avanzato proposte concrete in questa direzione, garantendo, a proposito della riduzione dei costi, risultati molto più consistenti e sicuri di quelli previsti dal progetto del Governo.
Pochi sanno, infatti, che le indennità dei senatori coprono solo il 20% dell’attuale bilancio del Senato: dunque prima spendevamo 100 per ottenere 80, domani spenderemo 80 per ottenere 20.
La Camera continuerà ad avere ben 630 deputati, pagati esattamente come oggi (cioè troppo), e le commissioni continueranno ad essere sovraffollate, dunque prive di un reale potere di indirizzo e controllo dell’operato del Governo. Un centinaio di consiglieri regionali frequenteranno la Capitale: non voteranno la fiducia, però si occuperanno di questioni rilevantissime, dovendo rispondere a logiche di partito e di territorio in una posizione di oggettiva subalternità al Governo. Queste ed altre ragioni di merito mi hanno indotto ad esprimere una opposizione chiara e ferma a un progetto di riforma costituzionale che non funzionerà, anche perché non è affatto simile agli altri ordinamenti diffusi in Europa dei quali si parla a sproposito, come ad esempio il Bundesrat, che segue una logica coerentemente federalista, o il sistema francese, che non a caso prevede il presidenzialismo. Siamo di fronte a una riforma a dir poco approssimativa, evidentemente viziata da un intento propagandistico e da un calcolo di convenienza politica a breve termine, talmente breve che potrebbe rivelarsi già scaduto.
Dal mio punto di vista la nuova legge elettorale non è la questione dirimente, ma costituisce un’aggravante, perché provvede a introdurre in un progetto già squilibrato un premierato di fatto, senza contrappesi adeguati, e con ogni probabilità spalancherà la strada ad un genere di presidenzialismo ancora sconosciuto nelle democrazie occidentali.
Vale la pena di ricordare che il tanto vituperato bicameralismo paritario è certamente raro, ma vivo e vegeto proprio negli USA, oltre che in Svizzera e Australia. Il premio di maggioranza nelle elezioni politiche nazionali, invece, è una creatura quasi esclusivamente italiana, a parte Malta, Messico e Corea del Sud, ma questo lo ricordano in pochi.
La Costituzione italiana non è intoccabile, ma rimane pur sempre l’esito storico della Guerra di Liberazione, e il frutto del lavoro della migliore classe dirigente che il nostro Paese abbia mai avuto. Sarebbe bene tenerlo presente, così come credo sarebbe utile rispondere a una domanda: davvero pensiamo che le inefficienze del nostro sistema politico dipendano dall’assetto costituzionale, lo stesso con cui il Paese si è sollevato dalle macerie del dopoguerra fino a diventare una delle grandi potenze industriali del pianeta? O non dipendono forse da una classe politica che da qualche decennio ama discutere di regole piuttosto che assumersi fino in fondo la responsabilità di governare e cambiare l’Italia?
Tornando alla nostra emigrazione, negli ultimi anni si è assistito ad un progressivo e a volte drastico taglio degli interventi, dalla scuola alla formazione, alla riduzione della rete consolare, ecc. che non ha pari con altri settori di spesa. Come mai i successivi governi non hanno colto il potenziale di questo pezzo di Italia fuori dai confini? E perché la compagine eletta all’estero non ha saputo contrastarla?
Anzitutto siamo di fronte a un problema complessivo di cultura politica. Per cogliere quel potenziale occorre una visione nazionale, un progetto per il Paese: non si può dire che la classe dirigente italiana degli ultimi decenni (non solo la politica) abbia brillato da questo punto di vista. Poi, dato che attraversiamo una lunga transizione, resa ancora più problematica dalla crisi del progetto europeo, servono la volontà e la capacità di aggredire i nodi strutturali dell’arretratezza italiana: tra questi, non ultimo il problema di una classe burocratica che ha consolidato il proprio status nel passato e riesce oggi, salvo poche eccezioni, a difenderlo a scapito dei diritti e degli interessi dei cittadini.
In questo quadro, l’azione dei parlamentari eletti all’estero è stata certamente insufficiente, specie se consideriamo le necessità e le aspettative. Non è mio costume millantare risultati epocali, ma penso sia giusto ricordare ad esempio che l’anno scorso i senatori eletti all’estero sono riusciti a recuperare 5 milioni di euro, molti dei quali indirizzati ai corsi di lingua e cultura italiana, e così bene o male è accaduto negli anni precedenti, anche grazie alla sensibilità manifestata da alcuni esponenti del Governo e della maggioranza parlamentare. Cifre insufficienti, senza le quali però avremmo assistito a una perdita di servizi ancora più grave.
A mio avviso, il terreno sul quale l’azione degli eletti all’estero è stata davvero carente in questi anni (e mi assumo per intero la mia parte di responsabilità) è quello della capacità di incidere sul dibattito nazionale valorizzando il potenziale di cui stiamo parlando, così come quello della volontà di difendere le ragioni degli italiani all’estero anche quando ciò significa entrare in conflitto con attori influenti, quali la burocrazia ministeriale o alcune espressioni del mondo sindacale. Da questo punto di vista, pur confermando la mia insoddisfazione per lo stato dell’arte, devo aggiungere che ho la coscienza a posto.
Di certo serve un salto di qualità, sia nell’azione dei parlamentari che nell’ambito della rappresentanza in generale. Non a caso, coloro che puntano a comprimere i servizi pur di mantenere i privilegi, agiscono per delegittimare la rappresentanza e svuotarne la funzione: lo abbiamo visto con i Comites. Perciò è essenziale che chi si assume l’onere e l’onore di rappresentare gli italiani all’estero lo faccia con la schiena diritta e lo sguardo vigile.
(da “l’Avvenire dei lavoratori”)
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