Era il 26 dicembre di 58 anni fa, quando, in occasione del Trofeo di Natale, fu presentata in pubblico, pilotata dal 21enne Lucio De Sanctis per alcuni giri di pista, la prima vettura da corsa di nuova costruzione nata dalla entusiasmante collaborazione con papà Gino nella loro azienda romana: “Formula Junior 750”.
L’evento venne celebrato dal periodico specializzato “Motor” con 8 pagine che raccontava la loro storia. Una storia esemplare, che merita di essere ancora ricordata oggi mentre si celebrano, ma con l’impiego di tecnologie e di capitali giganteschi, le imprese della nostra ingegneria automobilistica nel mondo. Una storia che è stata ricordata e celebrata ad ottobre dal Club Amici di Vallelunga e dalla CarMag di Antonio Maglione (ideatore dell’iniziativa) a Formello, dove si è svolto un “Gino De Sanctis Day”, testimonianza di affetto e riconoscenza nei confronti dell’indimenticato Sor Gino. Sul piazzale antistante – riferisce “InterAuto News” – un grande salone zeppo di prestigiose auto d’epoca, alcune De Sanctis ultracinquantenni perfettamente conservate e restaurate hanno accolto i numerosi protagonisti del motorsport di oggi e di ieri. Sono arrivati per l’occasione ex piloti della De Sanctis Corse (persino Thoroddsson dall’Islanda) e della De Sanctis Elaborazioni; dirigenti, commissari, meccanici, dai preparatori ai rappresentanti di scuderie e club, giornalisti del settore, appassionati d’ogni età che hanno potuto ammirare le storiche De Sanctis Sport 1000 di Alberto Rastrelli ed Enrico Rondinelli, la Junior ’59 di Nicola Venanzi (ex Antonio Maglione) e l’altrettanto splendida Formula 850 di Renzo Marinai. Sulle pareti le maquette originali realizzate dalla carrozzeria Filacchione per Gino De Sanctis, introvabili oggetti retrò di proprietà di Massimo Lippi, figlio dell’indimenticato Roberto. A far da cornice un percorso rievocativo dell’epoca con pannelli e totem, strisce di piloti e clienti De Sanctis, palmarés, foto, riproduzioni di articoli da giornali e riviste, e un angolo espositivo di imperdibili souvenir. (NELLA FOTO: da sinistra due dirigenti dell’AC Roma, poi Lucio De Sanctis, Raniero Pesci allora proprietario dell’ ippodromo di Vallelunga, Gino De Sanctis, e il pilota Carlo Fabri).
Per l’occasione Lucio De Sanctis (che realizza settimanalmente per l’Altro quotidiano la rubrica “A ruota libera” ) ha scritto per “InterAutonews” un ricordo di suo padre e dell’avventura creativa e imprenditoriale che con lui ha vissuto. Siamo lieti di riprodurlo, qui di seguito, per i nostri lettori.
GINO DE SANCTIS nel ricordo di suo figlio
Un ragioniere maestro di tecnica
con la vita segnata dalle corse d’auto
di LUCIO DE SANCTIS – Scrivere del proprio padre non è cosa facile. Quasi sempre i ricordi sono offuscati dalle emozioni specie se il rapporto è stato intenso e pressoché quotidiano. Gino De Sanctis era un personaggio benvoluto da tutti nonostante il suo carattere brusco mettesse in soggezione al primo contatto. Con la frequentazione veniva fuori un’istintiva e non affettata signorilità, baciamano alle signore, abitudine a camicie di seta avorio e grande cura per le unghie ricoperte di smalto trasparente. Dettagli che non sfuggono, specie a un figlio che solo in età molto matura imparò qualche raffinatezza nel vestire. Ancora un dettaglio: per non rinunciare a barba fatta di fresco e capelli in ordine anche quando era particolarmente indaffarato, faceva venire il barbiere nel suo ufficietto. In questo lavoro si alternavano Ugo e Salvatore che pazientemente facevano con calma il proprio lavoro fra telefonate a raffica, meccanici che chiedevano istruzioni e papà che prendeva appunti.
Questi ricordi molto personali sono serviti per sciogliere la mia abituale riservatezza sugli eventi di un passato intenso e appassionante, a volte reso drammatico dalla perdita di qualche amico carissimo. Penso a Bepi Faranda, ad Alfredo Tinazzo, Geki Russo, Romano Perdomi “Tiger” e Ignazio Giunti, chiedendo perdono a chi, per difetto di memoria, avessi dimenticato. Quelle morti rendevano ogni volta più difficile e rabbiosa la prosecuzione di un lavoro già impegnativo.
A proposito della morte di Faranda, caro amico di famiglia, ricordo mio padre a bordo della monoposto junior di Gepi inanellare con i capelli al vento alcuni giri dell’autodromo di Modena poche ore dopo l’incidente per verificare, alla presenza dei commissari tecnici, che la vettura fosse ancora perfetta nei freni e nelle sospensioni dopo la grande botta laterale sulle balle di paglia. Scese con le lacrime agli occhi e molti altri credevano che fosse stato per il vento nella corsa senza casco e occhiali. Io ero giovane e già molto esperto ma non volle che fossi io a collaudare la monoposto. Si prese lui l’incarico, già cinquantenne e a riposo come pilota. Dopo le lacrime, ebbe uno scatto di rabbia e felicità per essersi accertato di persona che la nostra Junior non aveva tradito l’amico pilota.
Ora farò un lungo passo indietro per ricordare che mio padre, io e l’automobile siamo stati un trio inseparabile fin da prima che io nascessi. Papà disputò la sua prima corsa nell’estate del ‘35 sul circuito di Pescara quando mia madre mi aspettava e mi portò in grembo con un taxi da Manoppello (dove era stata parcheggiata dalla suocera donna Adele) ai box per sorprendere il marito che le aveva nascosto la “marachella”. Pochi anni dopo e fino ai miei nove-dieci anni puntualmente la domenica mi faceva fare lunghi giri al suo fianco con la Balilla o la Topolino.
Una decina d’anni più tardi, era il tempo dei miei studi d’ingegneria interrotti per dedicarmi alle automobili da corsa, cominciò la lunga collaborazione con papà nella costruzione delle monoposto. Era il 1958 quando nacque la prima vetturetta, nei locali adiacenti al banco prova motori al sesto chilometro della via Salaria. Fu un lavoro casereccio all’inizio e si andò sviluppando in pochi mesi. Partecipavano, per passione pura, il giovane ingegnere Steno Colonna pilota di una 600 elaborata a via Arno e l’espertissimo ex dirigente Alitalia Armando Palanca, ingegnere molto ferrato in aerodinamica e nella dinamica di fluidi. Fu lui a suggerire il radiatore anteriore inclinato verso terra di una trentina di gradi e una presa d’aria piccola parallela al radiatore per sfruttare in pieno il flusso d’aria che all’approssimarsi della monoposto tende a sollevarsi di circa 30 gradi. Qualche anno dopo anche l’ingegner Giampaolo Dallara venne a Rona a sue spese e senza alcun compenso per studiare con noi la possibilità di utilizzare sulle Formula 3 un ponte DeDion.
Allora era tutto un fiorire di idee attorno al concetto innovativo, voluto da mio padre, del motore posteriore, soluzione che si ispirava alla Cooper. La “piccoletta”, per via delle ridotte dimensioni, con motore 850cc e peso di 360 chili, era la prima vettura da corsa italiana con “i buoi dietro al carro”. Nel ’58-‘59 dominava a Vallelunga e le buscava a Monza. Le cose migliorarono sui circuiti veloci quando sul nuovo modello ‘59 optammo per il motore Fiat 1100 su 400 chili di peso e con l’adozione di grossi freni anteriori, ancora a tamburo.
Nei successivi tre anni realizzammo nuovi modelli, non tutti vincenti ma comunque competitivi, fino al 1963 quando cominciammo a vincere dappertutto fino al 1966. Io mi staccai in un capannone in via dei Monti di Pietralata per tentare un rilancio commerciale quando le difficoltà cominciavano a diventare grandissime dopo la tragedia sul circuito di Caserta (giugno ’67 incidente a catena con tre morti, lo svizzero Beat Fehr e i nostri Geki e Tiger) e la chiusura per ampliamento dell’autodromo romano. Le spese aumentavano ma non avevamo nessuna intenzione di fermarci. La De Sanctis Corse realizzò alcuni esemplari di sport 1000, la schiera di formula 850 e Formula Ford che vinsero molto ma senza riuscire a sanare i bilanci. Per allargare il nostro mercato volevo proporre le 850 in scatole di montaggio. E qui, per la prima volta, mio padre non fu d’accordo, l’iniziativa sapeva troppo di commerciale per essere approvata.
La bella stagione si concluse nel 1970 per le grandi difficoltà economiche che mi costrinsero alla chiusura dell’officina di costruzioni. A tenerci legati per tanti anni fu la grande passione che animava mio padre e che aveva contagiato anche me. Le sue intuizioni hanno segnato tutto il nostro percorso, fatto che appare ancora oggi sorprendente se si pensa che Gino era un ragioniere, che non badava ai conti ma era abilissimo nella ricerca di soluzioni tecniche d’avanguardia, nella scelta dei collaboratori e nella testardaggine con la quale perseguiva i traguardi. Dopo il mio ritiro andò avanti con commovente tenacia, e quelli furono per me gli anni più tristi del nostro sodalizio.
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