di RAFFAELE CICCARELLI –
Il 2015 che ci ha appena salutati non è stato un anno facile, oltre alle difficoltà sociali ci ha lasciato un acuito senso di paura per uno stato di guerra non convenzionale che ormai è impossibile nascondere. Ogni anno che termina è generalmente legato, per ognuno, ad un ricordo che lo caratterizza, in tempi di quasi totale esposizione mediatica i ricordi vengono lasciati alle immagini, immagini che però vanno comunque raccontate a parole. Tralasciando quelle personali, ci sono quelle collettive che rischiano di finire nell’oblio, magari perché evocative di momenti brutti, crudeli in qualche caso, ma che non possono e non devono essere dimenticate, e a noi che scriviamo è affidata questa sorta di “coscienza collettiva”.
Tante sono le immagini, dunque, che hanno caratterizzato l’anno appena trascorso, una, a mio avviso deve restare impressa indelebile nella nostra memoria. Chi mi legge sa che il mio campo è quello dello sport, per antonomasia legato alle emozioni in genere gioiose, ma l’immagine simbolo di questo 2015 non può essere legata ad un evento sportivo, per quanto grande ed emozionante. Niente è più evocativo della foto del corpicino del piccolo Aylan, esanime, lambito dalle onde del mare. Un bambino di tre anni, curdo, ma non è importante la nazionalità: è mio figlio, il figlio di chi legge, il figlio di tutti noi, che ha avuto la vita spezzata su quella spiaggia. Un fiore reciso, un futuro annullato. Una immagine disperata e disperante, mai nessun genitore dovrebbe sopravvivere ai propri figli, quando accade è un atto contro natura: i genitori devono invecchiare, i figli crescere e perpetuare la loro eredità, in un ciclo continuo che rappresenta l’essenza stessa della vita.
Il soldato che guarda attonito, stranito, quel corpo ha lo sguardo di tutti noi, uno sguardo, che cela una sola domanda: perché? Perché in anni proiettati verso un futuro che dovrebbe garantire a tutti una casa, un posto sicuro in cui vivere, può accadere che un piccolo bambino muoia in un modo così anomalo, senza una casa, senza un rifugio? Non c’è, non ci può essere risposta logica. Non possono dare più conforto le braccia che lo raccolgono, le braccia di madri e padri che dovrebbero trasmettere amore e protezione, e che invece sono cariche solo di dolore e disperazione. Non possiamo girare la faccia da un’altra parte, fare finta di nulla, pensare che sia un fatto che non ci coinvolga. Questa immagine potrebbe facilmente essere presa come simbolo di una assenza di futuro, ma non è così: da essa, che raffigura il sacrificio estremo di questo nostro figlio, dobbiamo ripartire per darci nuove speranze, per rafforzare le fondamenta su cui costruire il futuro dei nostri figli. Solo così può essere accettata la morte del piccolo angelo chiamato Aylan, mio figlio, nostro figlio.
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