di FEDERICO BETTA – A Roma, fino al 25 novembre, è in scena l’imperdibile trentacinquesima edizione del Romaeuropa Festival 2018. Disseminato negli spazi culturali della Capitale, propone un calendario fittissimo, di opere importanti e nuove proposte, riunito attorno alla forte reazione verso un’umanità affaccia al XXI secolo schiacciata dalla paura, chiusa tra steccati, muri e barriere.
Sempre deciso a superare le separazioni tra popoli, è approdato nella capitale l’attesissimo ultimo lavoro del maestro Peter Brook, The Prisoner, parabola che attraversa i temi della colpa e della punizione attraverso un’inusuale osservazione dei processi di giustizia.
Nella sua autobiografia I Fili del tempo, Brook, che insieme a Marie-Hélène Estienne è regista e autore del testo, ci racconta come la storia sia nata da un incontro personale durante un viaggio in Afghanistan. In quell’occasione, un uomo lo invitò, con insistenza ma senza alcuna spiegazione, ad andare a far visita a un suo allievo, colpevole di un crimine impronunciabile: Brook si ritrovò davanti a un ragazzo, seduto immobile, all’aperto, di fronte a un’enorme prigione. Nell’episodio reale il regista non seppe mai quale fosse la colpa di quell’uomo, ma The Prisoner ci mette invece subito davanti al fatto: un giovane, trovando la sorella di cui è innamorato a letto con il padre, in un impeto d’ira, uccide il genitore. Lo zio, figura che accompagna il percorso del protagonista, chiede al giudice incaricato del processo di non mandare il ragazzo in prigione, rischiando così di acuire la sua rabbia, ma di poterlo accompagnare su un colle per lasciarlo lì, ad osservare una prigione finché non fosse stato lui stesso a capire d’aver espiato la propria colpa.
In questo spettacolo, lieve come un racconto attorno al fuoco e denso come una scrittura sacra, sembra esserci un condensato di saggezza antica e un’acuta riflessione sui limiti del nostro sistema morale. Da una critica al mondo carcerario, miope nell’idea che sia sufficiente rinchiudere delle persone per risolvere il problema della giustizia, si passa a una rivisitazione della tragedia greca e del tema delicatissimo dell’incesto, trattato senza giudizio o condanna, per affondare poi nella riflessione sulla ricerca della verità, del contatto con la natura e del senso più profondo della vita umana.
The Prisoner si mostra nella sua asciuttezza come una parabola universale che privilegia la narrazione e, come sempre negli spettacoli di Brook, è l’estrema semplicità a colpire: qui si viene immersi in una cornice eterea, stilizzata, un mondo senza tempo dove pochi tronchi d’albero e qualche telo divengono elementi di vita quotidiana e segni di un paesaggio altro. Il lavoro del regista inglese, sempre infuso di morali differenti, si tiene molto lontano dal dare risposte, creando una storia dove i legami familiari, le reazioni della comunità, il rapporto con gli animali e con la solitudine, scatenano dentro ognuno pesi e misure del proprio piano valoriale. In conclusione sembra però che appaia una sorta di messaggio in questa storia delicata e carica di tensione: la tradizione è un sacco che può essere pieno o vuoto, pesante o leggero, carico di oggetti indispensabili o di vecchi racconti. È compito degli uomini guardarsi dentro e portare oltre sé stessi un’idea di comunità che non si dissolva di fronte a ciò che più ci spaventa.
Incredibili tutti gli attori e le attrici (Hiran Abeysekera, Hervé Goffings, Omar Silva, Kalieaswari Srinivasan, Hayley Carmichael) tra i quali spicca Hiran Abeysekera, che interpreta il prigioniero.
Gli occhi enormi e densi del protagonista che guardano verso la platea fanno da specchio al tormento che si agita in ogni essere umano, la prigione che si trova proprio tra gli spettatori è in quello sguardo, è quel muro che sta dentro e davanti ad ognuno di noi, a cui non si può mai sfuggire.
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