di FEDERICO BETTA-
Perseguendo una politica culturale che mira a indagare le distorsioni, la violenza e l’esclusione nelle nostre società democratiche, è iniziata il 17 settembre la 34° edizione del RomaEuropaFestival 2019. Nella rassegna, diffusa in diversi spazi della Capitale, fino al 24 novembre sarà possibile assistere ai lavori dei più importanti artisti contemporanei nei campi del teatro, della performance, della danza e delle arti audiovisive.
Grazie a un sodalizio con il Teatro di Roma, Milo Rau, il talentuoso e premiatissimo regista svizzero, propone due lavori, uno dei quali, il film Il nuovo vangelo, ancora in corso di realizzazione.
Al Teatro Argentina è andato invece in scena Orestes in Mosul, nel quale Rau racconta la trilogia dell’Orestea di Eschilo ambientando la storia in un Iraq distrutto dallo Stato Islamico.
Il regista mostra una sezione del suo processo artistico, fatto di confronto con i luoghi, le storie, le persone e con il pubblico, tra una caserma di combattenti, una piazza della città, una cena tra conoscenti e l’accademia d’arte di Mosul distrutta dalle bombe americane. Come dice nel manifesto, i suoi non sono spettacoli ma sono percorsi che rivivono la presenza di multipli livelli. Tra la scena in teatro e il monitor che riprende gli spazi nella città irachena c’è un dialogo ininterrotto, come fossero lo stesso luogo. E così tra il pubblico e gli attori la relazione è continua, e tutta la messa in scena è mostrata nel suo farsi con le immagini raddoppiate dagli operatori ben visibili che riprendono i video.
Anche i livelli narrativi sono molteplici: c’è la storia dei personaggi sul palco, quella degli attori che raccontano il proprio lavoro in quello specifico spettacolo, c’è la tragedia di Eschilo come grande cornice tra il qui ed ora e la presa di Mosul, e infine c’è un livello metaforico che chiede a tutti noi di interrogarci sul valore e il significato che diamo a una tragedia.
L’Orestea è una trilogia formata dalle opere Agamennone, Le Coefore e Le Eumenidi che compongono un’unica storia suddivisa in tre episodi. Le sue radici affondano nella tradizione mitica dell’antica Grecia e riguardano le conseguenze dell’assassinio di Agamennone da parte della moglie Clitennestra. La storia è una lunga striscia di sangue causata dalla vendetta, prima del figlio Oreste che uccide la madre, e poi per la persecuzione del matricida da parte delle Erinni con l’assoluzione finale a opera del tribunale dell’Areopago.
Questa lunga catena di sangue e vendetta permette a Milo Rau di indagare i più profondi risentimenti delle popolazioni colpite dalla guerra e il senso di liberazione che può offrire la vendetta o il perdono.
Una riflessione cardine dello spettacolo è affidata alla terza parte della trilogia, Le Eumenidi: ovvero il momento in cui la guerra è passata e comincia una fase di ricostruzione. Assistiamo a una scena in cui una donna che ha perso il marito a causa dell’IS si fa portavoce in un tribunale che sancisce assolti e colpevoli. Reiterare la violenza o perdonare? Decidere di non condannare chi ha distrutto e seminato morte non equivale a perdonare, ma anzi si è lontani da un qualsiasi ristabilimento dell’equità e dalla metabolizzazione dell’accaduto.
Video, suoni, musiche, parole, rumori, respiri strozzati. La purezza del segno è espansa grazie all’inesauribile lotta tra la rappresentazione e la realtà, tra ciò che viene mostrato e ciò che viene tenuto fuori scena, tra racconto e verità.
Lo spettacolo ha debuttato a Mosul ed è realizzato grazie a un insieme di attori europei e iracheni. Ancora una volta Rau dimostra tutta la potenza della sua visione dando vita a un teatro-tribunale affondandola sua opera in una vera e propria analitica della violenza, con le sue conseguenze e le sue ritorsioni.
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