di SERGIO SIMEONE – Penso che tutti conoscano la famosa frase che viene attribuita a Massimo D’Azeglio: “L’Italia è fatta. Ora bisogna fare gli italiani”. Sarebbe troppo lungo fare l’elenco di tutti coloro che hanno cercato di realizzare, dopo l’unità d’Italia, l’obiettivo indicato da D’Azeglio; ma di una cosa sono assolutamente certo: chi ha dato il contributo più importante in questa direzione sono stati un uomo, Francesco De Sanctis, ed una istituzione, la scuola italiana. Il grande pensatore irpino (grazie anche alla sua formazione hegeliana) ha intuito due cose. 1) Occorreva non costruire ex novo una identità in cui gli italiani si potessero riconoscere tutti (come adombrato dalla frase citata), ma riscoprire una identità preesistente alla unità politica della nazione; 2) detta identità andava individuata non nelle travagliatissime vicende politiche del nostro Paese (fatte allora di tanti potentati locali in continua lotta tra di loro) ma in una comunità culturale degli italiani, costruita nei secoli da tanti illustri letterati e cementata da una lingua comune, il dialetto toscano, divenuto lingua italiana.
E così De Sanctis scrive un testo che si intitola, non a caso, Storia della letteratura italiana, che parte da La rosa fresca aulentissima di Cielo D’Alcamo ed arriva fin quasi ai giorni nostri. Ma quella di De Sanctis sarebbe stata una nobile ma vana fatica se la scuola italiana non avesse fatto propria l’idea desanctisiana e, attraverso programmi unici, uguali in tutta Italia, non avesse insegnato a milioni di giovani, generazione dopo generazione, ad essere orgogliosi di essere italiani perché eredi di un grande patrimonio culturale in cui confluiscono le opere del siciliano Cielo D’Alcamo, dei grandi toscani Dante, Petrarca e Boccaccio, del napoletano Torquato Tasso, tutti italiani molto prima che fosse fatta l’Italia.
Dobbiamo a questo punto chiederci se la scuola italiana continuerà ad avere il suo ruolo prezioso ed insostituibile di istituzione che fa da collante dell’unità d’Italia anche per il futuro. Dobbiamo purtroppo lanciare un serio allarme perché proprio in questi giorni questo ruolo viene messo fortemente in discussione dai governatori di quelle regioni che, dopo il referendum del 2017, avanzano richieste di maggiore autonomia.
Fantasie? Non credo proprio. Basta leggere le dichiarazioni di Luca Zaia dopo aver raggiunto un accordo con il ministro della Cultura, Marco Busetti, per introdurre storia e cultura del Veneto nelle scuole della sua Regione: “Giornata storica ed emozionante in Veneto. Un’anteprima dell’autonomia regionale che verrà”. Dunque è proprio la disarticolazione territoriale della scuola il primo obiettivo di quella forza politica (La Lega), che ha cambiato il nome per ingannare i gonzi, ma non ha cambiato il suo obiettivo di fondo: prima gli italiani (del nord).
E i pentastellati si sono accorti di queste manovre in corso? E, più in generale, come intendono intervenire sulla trattativa governo-regioni per dare attuazione ai referendum del 2017 in modo da evitare che si arrivi ad una secessione di fatto delle regioni del nord a danno di quelle del sud? Lo chiediamo soprattutto a Luigi Di Maio (di origini irpine come De Sanctis) ed al foggiano Giuseppe Conte. L’impressione che si ha, per il momento, è che la materia sia stata delegata (secondo un rigoroso metodo “Cencelli”) alla ministra Erika Stefani, leghista storica, come se si trattasse di un problema settoriale e non di un tema politico generale di enorme rilievo.
Io spero tanto di sbagliarmi, ma temo proprio che i Cinquestelle stiano per subire l’ennesimo scippo da parte dei loro più scafati alleati.
Ci sarebbe per la verità da chiamare in causa anche l’opposizione. Ma è il caso di svegliare chi dorme?
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