Si è spento questa sera a Roma nella clinica Salvator Mundi al Gianicolo GIORGIO NAPOLITANO, eletto due volte alla carica di Presidente della Repubblica: il 15 maggio 2006 e il 14 gennaio 2015. Nato a Napoli il 29 giugno 1925, era stato eletto Capo dello Stato il 15 maggio 2006 e rieletto per la seconda volta 7 anni dopo perché erano andate a vuoto le votazioni per la scelta del successore. E’ stato Capo dello Stato dal 15 maggio 2006 al 14 gennaio 2015 ed è stato il primo della storia italiana a essere stato eletto per un secondo mandato, nonché il primo a essere stato membro del Partito Comunista Italiano e il terzo presidente della Repubblica napoletano dopo De Nicola e Leone.
Prima di essere eletto alla massima caria della Repubblica Giorgio Napolitano è stato presidente della Camera nell’XI legislatura, ministro dell’Interno nel governo Prodi I, deputato pressoché stabile dal 1953 al 1996, europarlamentare dal 1989 al 1992 e poi dal 1999 e al 2004. Nel 2005 venne nominato da Carlo Azeglio Ciampi senatore a vita.
Il ‘re Giorgio’ che piaceva a Washington
Sembra che il grande cruccio della sua vita – ricorda l’Agi – sia stato quello di non aver mai potuto darsi a tempo pieno al teatro, amore abbandonato dopo gli anni dell’Università. Ma quelli erano anche gli anni delle scelte – tempi di guerra e di fascismo – e Giorgio Napolitano prese un’altra strada. Non che gli sia andata male. Sarebbe infatti diventato undicesimo Presidente della Repubblica e poi – cosa senza alcun precedente, ma solo fino ad allora – persino dodicesimo, tra due ali di folla parlamentare plaudente cui lui nemmeno in quel momento risparmiò un paio di solenni rimproveri.
Era il maggio 2013, e lui aveva già 88 anni. Nemmeno a Sandro Pertini era riuscito di farsi rieleggere a quell’età e sì che ci puntava, forte com’era dell’essere il più amato dagli italiani. In realtà lui fu l’ultima spiaggia cui s’attaccò un sistema che reggeva l’anima coi denti. Un sistema che andava emendato, sicuramente migliorato. E lui che era un ‘migliorista’ di nome e per scelta, voleva emendarlo a costo di fare un patto col diavolo.
Fin da giovane, dell’ala migliorista, appunto, del Partito Comunista aveva fatto parte: il progresso della sinistra si fa sposando Rousseau con Diderot, Enciclopedia e menti illuminate. Riforme, come Filangieri e Genovesi: la Napoli settecentesca, culminata nella Repubblica Giacobina.
Ma facciamo un passo alla volta, per favore: è più sicuro. In quei tempi – quelli della rielezione – il Pd di Bersani era arrivato primo alle elezioni, ma non le aveva vinte: gli mancava un punto a far tombola e si ritrovò con la ‘mucca in corridoio’. Complice la fretta e la fronda interna ai democratici, guidata da uno scalpitante quanto giovane sindaco di Firenze, ecco che il Pd s’incarta sui nomi, porta Marini che viene silurato, Prodi che viene giubilato e quindi – inevitabilmente – gli si ingolfa il motore.
A quel punto tutti con il cappello in mano da Napolitano, che da sei mesi andava dicendo che non se ne sarebbe nemmeno parlato: invece venne rieletto alla prima votazione, con giubilo e sollievo degli astanti. Lui si presenta alle Camere e dice, in sostanza, che resterà solo se finalmente verranno varate le riforme, e che tanto lui di loro non si fidava per nulla. Insensibili alla ‘sgargamella’, da grandi incassatori, maggioranza e opposizioni continuarono ad applaudire: avevano capito che era iniziata l’era di ‘Re Giorgio’, ma anche che sarebbe durata poco. È l’eterna storia della Palude e della Fronda Parlamentare: non c’è re che non la tema, e ne ha ben donde.
Re Giorgio’ era detto così ben da prima del 2013: vuoi per il suo fare distinto, vuoi per una vaga somiglianza, vuoi, infine, perché era uno dei pochi politici italiani in grado di prendere il tè con la Regina d’Inghilterra senza far scivolare la tazzina tra le dita. Anzi, facendo un figurone grazie ad un inglese più che forbito. Insomma, un gentiluomo di movenze britanniche e di eleganza partenopea: quella che non colpisce ma resta impressa. Per l’appunto Filangieri e Genovesi, Cuoco e Caracciolo.
Riformista, illuminista. Ma con un tocco di anglofilia che, più che a Nelson e ai suoi cannoneggiamenti antirivoluzionari e antipartenopei, lo fa piuttosto accostare a Lord Acton. Non è un caso se lui, primo ex comunista a divenire ministro dell’Interno e poi Presidente, potesse vantare amici ed ammiratori persino a Washington. Nemmeno Henry Kissinger era immune dal suo delicato fascino, e lo chiamava “il mio comunista preferito”. Per dire: quando nel luglio 2009 sbarca al Quirinale Barack Obama, e a Palazzo Chigi Silvio Berlusconi è lì tutto pronto a spalancargli le braccia, è semmai Napolitano a ricevere il complimento più ambito. “Lei ha una reputazione meravigliosa, non solo per la sua carriera politica ma anche per la sua integrità e gentilezza.
È un leader mondiale che rappresenta al meglio il suo Paese” si sente dire dall’Illustre Ospite. L’altro, a Palazzo Chigi, abbozza ma non è per niente di buon umore. L’amore viene ricambiato: Napolitano e Obama si vedranno, ora da una parte ora dall’altra dell’Oceano, altre quattro volte. E a New York il Presidente italiano sarà sempre accolto volentieri dal Council on Foreign Relations, e non c’è bisogno di dir altro.
Nessuno lo avrebbe mai immaginato, fino almeno alla fine degli anni ’70, quando cioè gli Usa ancora negavano il visto a un Enrico Berlinguer. Ma fu lui, Napolitano, il primo esponente di spicco del Pci a vedersi stampare sul passaporto il timbro rosso e blu con la scritta “visa”
Il segreto di tanto successo sta forse nel fatto che, dopo tre lustri passati a dividersi, odiarsi ed insultarsi, sotto sotto gli italiani desideravano sentirsi dire che essere uniti è bello e giusto. A segnare la svolta fu una serata sanremese dedicata all’Inno di Mameli, condotta, interpretata e ‘tiranneggiata’ da Roberto Benigni. Ascolti da favola, 50 per cento di share e gli italiani che vanno a letto quella sera migliori, un pò, di quanto fossero la mattina. Capita di rado.
Napolitano, felice, ringrazia: il dvd di quella serata viene distribuito in tutte le scuole d’Italia. È presumibilmente questo il momento in cui si decide che a succedergli al Quirinale sarà sempre lui, ma chi lo sa. Ad ogni modo, una volta rieletto Napolitano come primo atto fa secco il suo grande elettore, cioè Bersani: gli offre non l’incarico per la formazione di un nuovo governo, come lui si invece si aspetta, ma un “preincarico”, formula non priva di ambiguità con pochissimi precedenti costituzionali.
Quando, come previsto, Bersani decide di rinunciare all’incarico e si precipita a Roma da Firenze l’ambizioso giovane sindaco: Matteo Renzi. E Napolitano compie il più grande errore della sua carriera politica dando l’incarico di capo del governo all’ambizioso ex sindaco di Firenze. (fonte: AGI)
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