di SERGIO SIMEONE*- Con le elezioni presidenziali abbiamo assistito al rovesciamento del paradosso gattopardesco: tutto è rimasto come prima (ai vertici dello Stato) eppure tutto è cambiato (nel sistema dei partiti). Con la rielezione di Mattarella e l’automatica conferma del governo Draghi, infatti, ha vinto lo status quo. Ma status quo in questo caso non è stato sinonimo di immobilismo, perché, mentre le massime cariche dello Stato rimanevano ferme al loro posto, tutto il quadro politico si metteva in movimento. In particolare, l’accidentato percorso per arrivare al risultato finale ha fatto emergere tutte le crepe che minano da tempo le due coalizioni, quella di centrodestra e quella di centrosinistra, e che ora sono apparse evidenti a tutti, anche (o forse soprattutto) ai loro gruppi dirigenti.
A destra abbiamo assistito alle furibonde dichiarazioni di Giorgia Meloni, secondo la quale il centrodestra non esiste più, a cui hanno corrisposto le altrettanto sdegnate proclamazioni di Matteo Salvini, per il quale la coalizione di centrodestra si è sciolta come neve al sole. Intanto Brunetta, in una intervista concessa a Repubblica, manifestava tutta la insofferenza di una parte di Forza Italia, quella filo-Draghi, per un centrodestra egemonizzato da sovranisti e populisti che flirtano con Orban e Le Pen. A metterci il carico da 11 ci ha pensato infine Berlusconi, che pare abbia bandito la Meloni dalle reti Mediaset.
A rendere fragile il centrosinistra è soprattutto la crisi del Movimento 5 stelle. In continua perdita di consensi praticamente dal 2018, ora è divenuto teatro dello scontro tra Conte e Di Maio, con il presidente del Movimento irritato dalle critiche rivolte (“ai leader” e quindi anche a lui) dal ministro degli Esteri alla conduzione delle trattative per la elezione di una donna (autorevole) a Presidente della Repubblica, interpretate (erroneamente) come tentativo di delegittimarlo, e il ministro degli Esteri che si è dimesso dal comitato di garanzia del Movimento, ma non per fare il mea culpa, bensì per guadagnare libertà di critica ed aprire un fronte (si presume) per la riconquista della leadership.
Questo disarticolarsi delle due coalizioni ha prodotto il riprendere quota della ipotesi di riformare il sistema elettorale in senso proporzionale. Il sistema maggioritario – ragionano i “proporzionalisti “- spinge i partiti ad aggregarsi in coalizioni per vincere le elezioni. Ma queste, poi, se ci sono forti dissidi tra i partiti che ne fanno parte, non riescono a garantire la formazione di governi stabili e quindi il maggioritario finisce per dare solo l’illusione della governabilità. Meglio allora che ogni partito si presenti con la propria identità davanti agli elettori. Sarà, successivamente, la convergenza su punti programmatici a determinare la formazione della maggioranza di governo.
Però ad intralciare qualsiasi movimento in direzione di qualsivoglia riforma elettorale c’è il fatto che i partiti tendono a valutare i sistemi elettorali non in base al parametro del miglior funzionamento del sistema politico, bensì in base a quello della loro convenienza contingente. Alla luce di questo criterio ai partiti del centrodestra non conviene una abolizione del “rosatellum”: loro sono sicuri che, con l’approssimarsi delle elezioni politiche, finiranno con l’accantonare le differenze, a fare coalizione e ad assicurarsi la vittoria. Faranno perciò una fiera opposizione ad ogni tentativo di riformare il sistema in senso proporzionale. Ed il tempo gioca a loro favore: non si può riuscire a fare una riforma elettorale nell’ultimo anno di una legislatura senza il consenso unanime (o quasi) dei gruppi parlamentari.
Sarebbe forse più utile, allora, utilizzare questo tempo che ci separa dalle prossime elezioni politiche per modificare il “rosatellum” almeno nella sua parte più odiosa: quella che permette ai capi dei partiti di decidere chi dei candidati messi in lista potrà essere eletto, sottraendo questo diritto agli elettori. Tutti i partiti si dichiarano d’accordo che occorre sollecitare la partecipazione dei cittadini alla vita politica e che bisogna ridurre l’assenteismo (ormai “primo partito” in Italia). Questo potrebbe essere un primo importante segnale.
*Sergio Simeone, docente di Storia e Filosofia, è stato anche dirigente del Sindacato Scuola della Cgil
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