Un magistrato con il titolo e il ruolo di pubblico ministero presso la Procura di Brescia ha chiesto l’assoluzione per un uomo del Bangladesh accusato di maltrattamenti della moglie in quanto… “i contegni di compressione delle libertà morali e materiali sono il frutto dell’impianto culturale del marito e non della sua coscienza e volontà di annichilire e svilire la coniuge”.
Immediata e comprensibile la reazione del procuratore capo, Francesco Prete (foto a lato), il quale si è dissociato da quella motivazione che – ha affermato – “ripudia qualunque forma di relativismo giuridico, non ammette scriminanti estranee alla legge italiana ed è sempre stata fermissima nel perseguire la violenza, morale e materiale, di chiunque, a prescindere da qualsiasi riferimento ‘culturale’, nei confronti delle donne“.
Sbalordita, ovviamente, per quella affermazione del pm si è detta anche la vittima dei maltrattamenti in famiglia: “Dov’è la giustizia e dov’è la protezione tanto invocata per le donne, tra l’altro incoraggiate a denunciare al primo schiaffo? Oppure il fatto che io sia una bengalese tra le tante, mi rende di minor valore secondo questo pm?”.
Il pubblico ministero in questione è il magistrato della Procura di Brescia che ha chiesto l’assoluzione per l’ex marito della donna, nata in Bangladesh ma cresciuta in Italia, e che nel 2019 ha trovato il coraggio di denunciare i maltrattamenti: “Sono stata trattata da schiava, picchiata, umiliata. Costretta al totale annullamento, con la costante minaccia di essere portata definitivamente in Bangladesh“.
A far rumore sono proprio le parole della motivazione che accompagna la richiesta di assoluzione proposta dal pm: “I contegni di compressione delle libertà morali e materiali della parte offesa da parte dell’odierno imputato sono il frutto dell’impianto culturale e non della sua coscienza e volontà di annichilire e svilire la coniuge per conseguire la supremazia sulla medesima, atteso che la disparità tra l’uomo e la donna è un portato della sua cultura che la medesima parte offesa aveva persino accettato in origine“.
Il magistrato della Procura di Brescia inserisce quindi il caso nel campo dei “reati culturalmente orientati”, punibili in Italia ma tollerati nel paese di origine. E, parlando della vittima, scrive che “le condotte dell’uomo sono maturate in un contesto culturale che sebbene inizialmente accettato dalla parte offesa si è rivelato per costei intollerabile proprio perché cresciuta in Italia e con la consapevolezza dei diritti che le appartengono e che l’ha condotta ad interrompere il matrimonio. Per conformare la sua esistenza a canoni marcatamente occidentali, rifiutando il modo di vivere imposto dalle tradizioni del popolo bengalese e delle quali invece, l’imputato si è fatto fieramente latore”.
Solo pochi mesi fa il tribunale di Brescia aveva condannato un padre violento che maltrattava le figlie “perché non erano brave musulmane”. Il presidente della prima sezione penale Roberto Spanó, condannato l’uomo, scrisse: “I soggetti provenienti da uno Stato estero devono verificare la liceità dei propri comportamenti e la compatibilità con la legge che regola l’ordinamento italiano. L’unitarietà di quest’ultimo non consente, pur all’interno di una società multietnica quale quella attuale, la parcellizzazione in singole nicchie, impermeabili tra loro e tali da dar vita ad enclavi di impunità“.
In attesa della sentenza prevista per ottobre la donna, che si è costituita parte civile contro il marito, in un’intervista al Giornale di Brescia ha manifestato un auspicio: “Aspetto con fiducia la sentenza perché non posso pensare e credere che in una nazione come l’Italia si possa permettere a chiunque di fare del male ad altri impunemente solo perché affezionato a una cultura nella quale la donna non conta nulla e l’uomo può su di lei tutto, anche porre fine alla sua vita. Solo per una questione di obbedienza culturale. Ciò in Italia non può accadere“
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