di ALESSANDRO MAGLIARO* – Se avesse candidato a sindaco Carlo Verdone anziché Roberto Gualtieri, il Pd non avrebbe avuto bisogno del ballottaggio per conquistare Roma: avrebbe vinto, anzi, stravinto al primo turno. Se (più di) due indizi fanno una prova, questa è la notizia che consegna Vita da Carlo, la prima serie diretta e interpretata da Verdone.
Ambientata ai giorni nostri, lancia l’attore alla corsa al Campidoglio su perentoria indicazione del presidente della Regione Lazio, nella finzione tal Gustavo Signoretti che fa rima con Nicola Zingaretti. La candidatura è a furor di popolo, ovvero social, complice un video virale che raccoglie lo sfogo di Carlo: “Roma è una città spenta, sporca e abbandonata: zozza. Mancano politici preparati, autorevoli, che abbattano la burocrazia: Roma chiede solo di essere amata”.
In ossequio al genere della serie, autofiction, il dato è biografico, la proposta c’è stata davvero, e Carlo lo rivela alla Festa del Cinema, che presenta i primi quattro episodi: “Me l’hanno chiesto qualche anno fa, i sondaggi erano spaventosi: mi davano al 70%. Ma mi è bastata mezz’ora per ringraziare e declinare l’invito: posso avere la passione, ma non la preparazione necessaria, e poi perché abbandonare un lavoro che ho iniziato in un teatrino universitario nel lontano 1971?”.
Sul piano B del Partito democratico (Gualtieri), Verdone non si sbilancia: «Non lo conosco, spero abbia la fortuna e la capacità di trovarsi una squadra forte, determinata, rapida e soprattutto onesta, in grado di divellere le barriere burocratiche che bloccano la città». L’attore cita il monumento di Garibaldi al Gianicolo colpito da un fulmine sette anni fa e ancora sotto lo scacco di tre soprintendenze: «Chiesi a Virginia Raggi: ‘tu non puoi fare nulla?’”. Non è successo niente, continuiamo così, a fare brutta figura con i turisti».
Non avrà la carica, ma Carlo ha un programma: «Manutenzione, da programmare velocemente. E soprattutto bisogna partire dalle periferie, sono in uno stato disastroso. Trasporti, attività ricreative per anziani e bambini, ridare dignità estetica a librerie, cinema e teatri. Questa dev’essere l’abilità di un sindaco». Insomma, la buona politica, che nulla ha a che fare con il politically correct.
Gli viene chiesto dello scambio di battute nel secondo episodio con Alessandro Haber: «Sono un povero ebreo che non se lo caga nessuno». «Ma dai, tutto il mondo è amico vostro, vi aiutano tutti, che cazzo dici, Alessandro!». E Carlo sbotta: «Non ne posso più del politicamente corretto, tra un po’ non faremo più ridere nessuno. Mentre scrivevamo queste cose, ci siamo fermati cinque volte con una specie di terrore, basta».
Targata Amazon Original, prodotta dalla Filmauro di Aurelio e Luigi De Laurentiis, la serie comedy in dieci episodi da trenta minuti sarà disponibile su Prime Video dal 5 novembre. Accanto a Verdone, co-regista con Arnaldo Catinari, nel cast ci sono Max Tortora, Anita Caprioli, Monica Guerritore, Antonio Bannò, Caterina De Angelis, Filippo Contri, Giada Benedetti, Maria Paiato, Claudia Potenza e Andrea Pennacchi.
“È stata una sfida, a quarant’anni dall’esordio con Un sacco bello, la mia prima serie. Mi ha permesso una maggiore libertà rispetto a un film, la dilatazione temporale attenua l’ansia drammaturgica, e amplifica l’intimità comica”.
Nel miscuglio di verità e finzione, Carlo attribuisce a questa Vita “il 35-40%” di conformità a quella reale, e dopo i libri La casa sopra i portici e La carezza della memoria ribadisce la fonte biografica della propria creatività. Financo nei titoli: al cognome ci aveva abituati, con Bianco, rosso e Verdone (1981) e Grande, grosso e… Verdone (2008), per Carlo è un’altra prima volta, e che sia Vita da e non di è sintomatico.
La manipolazione autoriale – la sceneggiatura è a dodici mani con Nicola Guaglianone, Menotti, Pasquale Plastino, Ciro Zecca, Luca Mastrogiovanni – è sensibile, e non solo nell’evidenza: c’è una leggerezza ansiolitica, se non calviniana, una facilità di regia che è promessa di felicità, un minimalismo allargato, più familiare che esistenziale, notazioni piccole ma non prive di ambizione, un’autodichiarata, però inconfutabile, “malincomicità”.
«Volevo lasciare un po’ di speranza», ribatte Carlo allo sceneggiatore che gli apparecchia in chiave Palma d’Oro la svolta “tra Tarkovskij, Murnau e i fratelli Grimm” de L’incrocio delle ombre, e nelle dinamiche con la figlia e l’invadente fidanzato, il figlio a mezzo servizio e la moglie separata ma non allontanata (Monica Guerritore: “Dopo la madre del Re, Francesco Totti, eccomi moglie dell’Imperatore di Roma”), il migliore amico (Tortora) e la farmacista di cui s’invaghisce (Caprioli) questa speranza effettivamente c’è.
Tranquilli: c’è anche il caro, vecchio Verdone, cui il trucido produttore intima una differente evoluzione: «Da lo famo strano a lo famo anziano». Tutto il resto è res publica, nell’accezione del condomino Roberto D’Agostino: «La politica è la continuazione della comicità con altre battute, di solito pessime. Verdone dopo Grillo».
* servizio Ansa
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