di SERGIO SIMEONE* – Sarebbe fatica improba elencare tutti i “principi” dei 5 stelle delle origini che sono caduti nel corso dei quattro anni seguiti al clamoroso successo delle elezioni politiche del 2018. Vogliamo ricordare solo i più rilevanti: quello della trasparenza per cui dovevano essere trasmesse in streaming non solo le riunioni del Movimento, ma anche gli incontri con i dirigenti degli altri partiti (e Bersani, sbeffeggiato in diretta da Crimi e Lombardi, ne sa qualcosa); quello del giustizialismo, per cui bastava solo ricevere un avviso di garanzia per diventare dei paria meritevoli di decadere da qualsiasi carica e di essere espulsi dal Movimento (esemplare il caso di Pizzarotti, l ’ottimo sindaco di Parma, espulso dal Movimento per non aver comunicato tempestivamente di aver ricevuto un avviso di garanzia); il disprezzo per tutti gli altri partiti, con cui non ci si poteva alleare, perché tutti considerati “impuri” in quanto veicoli degli interessi di lobbies, finanza internazionale e mafie.
La caduta, uno alla volta, di questi principi era stata salutata da tutti gli analisti come una prova che gli homines novi affermatisi nel 2018 stavano maturando politicamente e che l’esperienza governativa, costringendoli a misurarsi con problemi concreti da risolvere, stava facendo di loro una nuova classe dirigente capace di acquisire una solida conoscenza del funzionamento delle istituzioni e di calibrare bene le scelte di governo con realismo e liberandosi da visioni troppo ideologiche. Per questi motivi tutti si aspettavano che anche il limite dei due mandati sarebbe stato accantonato per non perdere la preziosa esperienza di chi si era fatto 10 anni di faticosa gavetta per arrivare a muoversi con conoscenza dei regolamenti ed intelligenza tattica nelle aule parlamentari.
Ma Beppe Grillo, con grande meraviglia di tutti, ha invece imposto (nella veste inconsueta di “garante”, quindi anche al presidente Giuseppe Conte).
Si tratta di una scelta grave per qualsiasi partito, ma che appare particolarmente nociva al Movimento 5 stelle per due motivi:
- il Movimento 5 stelle non ha una struttura territoriale ed ha, perciò, una presenza negli enti locali molto scarsa. Non dispone quindi di persone che hanno amministrato città e regioni, come gli altri partiti, che abbiano maturato una esperienza di governo, che potrebbero eventualmente spendere in Parlamento, sostituendo i compagni di partito decaduti. I nuovi eletti, quindi, dovranno rifare, partendo quasi da zero, il tirocinio fatto dai loro predecessori non più candidabili, commettendo tutti gli errori che i loro predecessori hanno fatto al loro primo ingresso in Parlamento.
- Il no al terzo mandato è arrivato come un diktat imposto non solo al Movimento, ma allo stesso Conte, presidente dei 5 stelle, che invece aveva fatto capire di essere favorevole, se non alla eliminazione del limite, almeno a delle deroghe che salvassero il gruppo dirigente che si era formato in questi anni. Questo diktat getta una pesante ombra sul Movimento: quando c’è da prendere qualche decisione importante Grillo interviene e può comportarsi da padre padrone. Quindi è falso lo slogan che va ripetendo il transfuga Di Maio quando afferma che il M5s è diventato “il partito padronale di Conte”.Ma allora Grillo è uno stupido o addirittura un autolesionista? Non credo. Provo ad interpretare il suo pensiero. Il Movimento, dopo la rottura con il Pd, si trova ad affrontare la campagna elettorale da solo. La scena è affollata da una quantità enorme di soggetti politici ognuno dei quali cerca di richiamare l’attenzione degli elettori con le sue proposte. Come possono i 5 stelle trovare uno spazio in questa folla? L’unico modo è far risaltare la propria diversità da tutti gli altri tornando a svolgere quella funzione catartica che era sottesa a tutte le regole stabilite quando il movimento è nato. Il no al terzo mandato è la prova regina che i 5 stelle non si sono lasciati fagocitare dal “sistema”. La gente deve vedere che mentre Giggino ‘a poltrona, il traditore, va alla disperata ricerca di una rielezione, Roberto Fico, che pure era riuscito ad occupare la terza carica dello Stato, rinuncia ad una nuova candidatura senza battere ciglio.Basterà questa scelta a rilanciare la morale anti-sistema del Movimento? Per capirlo bisognerà attendere il 27 settembre.
.* Sergio Simeone, docente di storia e filosofia, è stato anche dirigente del Sindacato Scuola dellaCgil
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