Anche Marco Minniti ha sciolto la riserva (che in realtà non c’era mai stata) e ha annunciato urbi et orbi che al prossimo congresso del Pd si candiderà alla carica di segretario del Pd in contrapposizione a Nicola Zingaretti, che è stato il primo a scendere ufficialmente in campo, seguito da Matteo Richetti, Francesco Boccia, Cesare Damiani, e, forse, l’ex vice segretario (di Renzi) e poi reggente Maurizio Martina.
L’ex ministro dell’Interno ha ufficializzato la scelta appena è stata dichiarata aperta, ieri, la fase congressuale dall’Assemblea nazionale del partito. Che, tuttavia, ancora non ha indicato né la data esatta del congresso, né quella dello svolgimento delle primarie. È bene chiarire che, se non verranno apportate modifiche al regolamento, queste primarie dovrebbero servire a far scegliere democraticamente agli iscritti il segretario, però, se nessuno dei candidati raggiunge la maggioranza assoluta dei voti, spetterà all’Assemblea nazionale scegliere il segretario tra i tre candidati che avranno riportato più voti alle primarie. Dunque la nomina in realtà sarà di competenza di quei membri dell’Assemblea nazionale che sono stati a suo tempo scelti da Matteo Renzi. Il quale non si è presentato all’Assemblea, dicendo di non volersi interessare del congresso perché i suoi interessi puntano ad un superamento del Pd come è adesso mirando ad una aggregazione diversa e più larga.
Intanto Minniti, in una intervista a Repubblica, tiene a far sapere di non essere ”lo sfidante renziano a Zingaretti” e agli altri eventuali candidati, anch’essi premuratisi di dire la stessa cosa nei talk show che frequentano, precisazione indispensabile per tentare di rifarsi una verginità e non essere associati al “perdente di successo”, cioè al segretario che ha il record del maggior numero sconfitte accumulate nel più breve tempo possibile dopo il boom delle elezioni europee 2014 ottenuto con l’elargizione del disastroso bonus a una decina di milioni di persone, associata alla promessa di “rottamazione” che fu l’equivalente del “governo del cambiamento” oggi in carica.
Sganciando la sua immagine da quella di Renzi, oggi l’ex ministro dell’Interno del governo Gentiloni, Marco Minniti, può quindi dire: «So bene che le scorse elezioni sono state più di una sconfitta. C’è stata una rottura sentimentale con i nostri elettori. C’è stato uno stacco netto tra la crescente preoccupazione per quel che sta avvenendo nel Paese e l’ordinaria amministrazione con cui il mio partito ha affrontato quella preoccupazione».
In che modo il Pd può uscire, secondo lui, da questa situazione? Risposta: «Non tornando semplicemente al governo. La sconfitta del nazionalpopulismo è possibile solo se si riesce a parlare con la società italiana. Va ricostruita una connessione. Serve un congresso che parli all’Italia, non un regolamento dei conti interni. Finora ci siamo schizofrenicamente guardati l’ombelico».
E dice di voler fare leva sul consenso dei 550 sindaci che hanno sottoscritto un invito a candidarsi perché dia “una guida forte e autorevole” al Pd, affermando: «In questi anni non abbiamo risposto a due grandi sentimenti: la rabbia e la paura. Non si può rispondere, a chi ha perso il lavoro, con la freddezza delle statistiche. Dicendogli che l’occupazione cresce. Così come non si può dire al cittadino che ha subito un furto in casa, che i reati diminuiscono. Allora c’è bisogno della sinistra riformista. I più deboli si sono sentiti abbandonati. Anzi, addirittura biasimati. Quello spazio è stato colmato dai nazionalpopulisti».
Ed ecco, infine, che cosa pensa del principale concorrente, Nicola Zingaretti: «Non è un avversario. Io penso a un ricamo unitario che valorizzi le differenze politiche. Per questo proporrò a tutti i candidati un codice di comportamento per far capire che non c’è una gestione contrapposta. Non dirò mai una parola contro di loro. Nel codice vorrei scrivere che chiunque vinca, avrà la collaborazione degli altri». E a rafforzare questa promessa ricorda l’esperienza della militanza nel Partito Comunista: «Quando stavo nel Pci, un leader di allora mi diceva: i capi scelgono come successore uno più coglione di loro e la chiamano continuità. Poi a volte si sbagliano e scelgono uno più intelligente e allora lo chiamano rinnovamento. Ecco, io voglio il rinnovamento».
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